venerdì 30 dicembre 2011

Il vaso di coccio e l'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori

Ogni volta che in Italia si interviene sulle pensioni, allontanando progressivamente l'età che ne dà diritto, torna invariabilmente il tema della modifica dell'art 18 dello Statuto dei lavoratori, il quale prescrive - per le aziende che occupino più di quindici dipendenti -  la reintegra in servizio del lavoratore licenziato senza giusta causa o giustificato motivo. E' questo il cosiddetto regime di "stabilità reale del posto di lavoro": il datore che licenzia illegittimamente non può sperare di cavarsela con un semplice risarcimento del danno, ma - oltre a questo - deve anche riassumere il lavoratore e ripristinare il rapporto come se questo mai si fosse interrotto. A seguito della recente riforma governativa delle pensioni, il tema dell'art 18 è tornato, puntuale, alla ribalta, anche se il ministro Fornero, negando intenti abrogativi, ha precisato che i riferimenti che lei stessa vi aveva fatto volevano solo stimolare una discussione sull'argomento. Il nesso tra l'incremento dell'età pensionabile e la revisione restrittiva, se non abrogativa, dell'art. 18  c'è di sicuro. Basti pensare che ormai da decenni le aziende cercano di liberarsi dei dipendenti più anziani ricorrendo a varie forme di prepensionamento il cui onere, per le stesse aziende,  è direttamente proporzionale agli anni che mancano al lavoratore per accedere alla pensione INPS. Finora, in qualche modo, si è riusciti a salvaguardare - sempre più a fatica - la garanzia per il lavoratore di una saldatura, senza soluzione di continuità, tra vita lavorativa e pensione, e quindi tra stipendio e assegno INPS. Con l'età pensionabile che andrà a collocarsi sui sessantasette anni, le aziende che vogliono liberarsi di lavoratori cinquantacinquenni come faranno ?  Le aziende vogliono mandare a casa prima, l'INPS accoglierà molto dopo. La saldatura "stipendio/pensione" secondo alcuni dovrà saltare, ma come fare, se l'art. 18 impedisce di licenziare se non in presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo ? Ecco svelato l'arcano. Tra le aziende e l'INPS c'è un vaso di coccio, dentro il quale c'è un lavoratore che, grazie all'eliminazione o all'attenuazione dell'art. 18, rischierà, in prospettiva, di restare senza lavoro, e quindi senza stipendio, mentre la pensione arriverà solo diversi anni dopo. E nel frattempo si dovrà arrangiare.   
E' vero che ormai, a distanza di quarantuno anni dalla promulgazione dello Statuto dei lavoratori (21 maggio 1970), lo scenario è purtroppo mutato e le aziende italiane, poco competitive, perdono segmenti di mercato e riducono quindi il proprio fabbisogno di manodopera, in un contesto nel quale il dato  drammatico dei cinquantenni rimasti senza occupazione, e senza prospettiva di trovarne una nuova data l'età, è superato solo da quello delle giovani generazioni che al mondo del lavoro non riescono ad accedere per niente. Tuttavia, per gli stati di crisi aziendale, sono previste procedure ad hoc che consentono di alleggerirsi di personale, così che l'art. 18, in questi casi, non costituisce alcun ostacolo. L'art. 18 quindi continua ancora oggi, dopo oltre quattro decenni, a svolgere egregiamente la propria funzione di civiltà: quella di mettere il lavoratore al riparo di licenziamenti dettati da discriminazioni di varia natura. Anzi, parrebbe necessario estenderne la tutela anche alle aziende che occupano fino a quindici dipendenti, sia per eliminare una situazione di ingiustificata diseguaglianza normativa, sia per superare quel blocco che induce molte aziende a far di tutto pur di non superare quel limite e mantenere la libertà di licenziamento (rinunciando anche ad assumere qualche giovane in più, pur di  non oltrepassare la soglia).   
Il problema che si vorrebbe risolvere è invece diverso: con l'incremento dell'età pensionabile,  da un lato le aziende si trovano ad avere dipendenti sempre più in là con l'età i quali, anche per la stessa anzianità di servizio, godono di un trattamento retributivo elevato, mentre il loro rendimento, in molti settori, passati i sessanta-sessantadue anni, tende oggettivamente a decrescere ed in qualche caso anche ad essere meno affidabile. Dal lato opposto, il ritardo dell'uscita dal mondo del lavoro blocca il ricambio e quindi l'accesso per i giovani alla prima occupazione. Ma questo problema non può trovare la soluzione nell'eliminazione dell'art. 18, che ha una diversa finalità - quella antidiscriminatoria - e che ha destinatari, di volta in volta, individuali. Qui le soluzioni devono essere necessariamente diverse ed avere natura collettiva. Un'ipotesi da approfondire potrebbe essere quella quella di prevedere fasi d'ingresso (per i giovani verso il primo impiego) e fasi di uscita (per gli anziani, in attesa dell'età della pensione) "alleggerite", e cioè con orari e salari ridotti, così che le aziende - accettando peraltro esse stesse una parte del sacrificio - possano assumere qualche giovane in più anche prima dell'uscita dell'anziano, entrambi i quali godrebbero per qualche anno di un trattamento economico ridotto rispetto alle normali paghe tabellari, e con una prestazione lavorativa anch'essa temporalmente ridotta. I giovani avrebbero comunque un reddito di partenza e soprattutto riuscirebbero ad accedere  stabilmente e non in maniera precaria  al mondo del lavoro, ed i vecchi - che a quell'età hanno normalmente anche minori bisogni - potrebbero contare su un decoroso reddito di accompagnamento verso la pensione.

Integrazione del 17 gennaio 2012

A seguito della pubblicazione del 16.1.2012 su "Italians" (Corriere della Sera - Corriere.it) di una sintesi del presente intervento, vi sono stati alcuni commenti sul suddetto Blog che rendono opportuna una integrazione.
L'art. 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 intervenne sulla pregressa disciplina dei licenziamenti individuali del 1966 rafforzando la tutela attraverso la previsione della reintegra in servizio del lavoratore la cui risoluzione del rapporto di lavoro fosse stata intimata senza una giusta causa o senza un giustificato motivo. Con questa norma, quindi, il datore di lavoro non può più liberarsi di un dipendente sostenendo solo il rischio di dovergli un risarcimento pecuniario nel caso in cui un giudice dichiari illegittimo quel licenziamento per l'assenza di una giusta causa (es: cassiere che ruba) o di un giustificato motivo (es. dipendente che si rivela palesemente inadatto alla mansione e non utlizzabile in altre della sua categoria). 
Con questa norma, infatti, un lavoratore licenziato per motivazioni diverse da quelle previste dalla legge (ad esempio: per le sue idee politiche, per una particolare antipatia sorta col datore di lavoro ecc., o perchè il datore di lavoro vuol diminuire il numero dei propri dipendenti, e ne sceglie uno secondo la sua discrezione) deve - se così decide il giudice che sia stato adìto - essere reintegrato in servizio col ripristino pieno del rapporto di lavoro, che si intende a tutti gli effetti come mai interrotto (l'art. 18 prevede inoltre, in aggiunta, un onere pecuniario risarcitorio a carico del datore di lavoro).
Questa norma, di per sè - e, certo, a seconda delle opinioni - può essere ritenuta una norma di civiltà, poichè sottrae il lavoratore all'arbitrio del suo datore di lavoro, e - certo - vincola pesantemente quest'ultimo a tenere in vita il rapporto.
Se l'obbligo di reintegra dell'art. 18 viene abolito, il datore di lavoro - sia pure pagando un prezzo pecuniario - ha la facoltà di cacciare in ogni momento un suo dipendente: se ne libera definitivamente.  Questa possibilità - in assenza di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo -  può applicarsi, in teoria, sia a situazioni che la fanno considerare giusta e positiva, sia a situazioni che sono il frutto di atteggiamenti ingiusti del datore di lavoro.
Nel primo caso, può certo accadere che il datore di lavoro ritenga necessario, per la propria organizzazione aziendale, ridurre la forza lavoro. Nel secondo caso, si può pensare ad un licenziamento che sia la ritorsione per contrasti sorti col lavoratore. Nella prima situazione, il datore di lavoro merita una tutela, nel secondo no. Ma per la prima situazione, la tutela deve risiedere in una norma di natura collettiva che salvaguardi comunque il lavoratore dal rischio di essere "prescelto" per un licenziamento sì oggettivamente necessario, ma di esservi "prescelto" in base a valutazioni soggettive e discriminatorie. Occorrono quindi (ed in molti settori sono da tempo previste) procedure di garanzia che fissino criteri oggettivi per l'individuazione dei licenziandi.
Se si adotta, come strumento per soddisfare la prima esigenza sopra esemplificata (quella "giusta") l'abolizione dell'obbligo di reintegra ora previsto dall'art. 18, si crea invece una situazione di arbitrio nella quale il lavoratore è alla totale mercè dell'imprenditore, assoggettamento che, a seconda delle opinioni, può essere ritenuto iniquo anche se si è in presenza di una reale ed oggettiva necessità di riduzione del personale, necessità per la quale, come detto, si deve ricorrere invece a strumenti di portata collettiva "ad hoc". 
Ora si provi ad applicare quanto sopra detto alla situazione già in atto da tempo e che i recenti provvedimenti pensionistici acuiscono in modo molto rilevante: i lavoratori dipendenti andranno in pensione molto più tardi e quindi le aziende dovranno tenerli in servizio molto più a lungo. Dovranno cioè tenere in servizio lavoratori anziani (fino a 66-67 anni) che in molti settori cominciano ad essere poco produttivi ma che, proprio in virtù dell'anzianità, hanno diritto a livelli retributivi più elevati. Anche in assenza di necessità produttive che rendano necessario ridurre la forza lavoro, le aziende - anche a fronte della pressione in entrata dei giovani in attesa di prima occupazione - vedranno la convenienza di mandare a casa il costoso sessantenne ed assumere un giovane da inserire ai primi e più bassi livelli retributivi. Se viene abolito l'obbligo di reintegra dell'art. 18, il gioco e fatto: si licenzia "immotivatamente" l'anziano, se questi ricorre al giudice gli si pagherà volentieri il risarcimento (conviene: l'anziano lo si sarebbe dovuto pagare - caro - magari ancora per dieci anni o più), e si assumerà un giovane che  costa la metà (che, senza art. 18, quando ci parrà potremo mandare anch'egli a casa).
Per questo, può sorgere il sospetto che non sia un caso se le proposte di "revisione" (eufemisticamente) dell'art. 18 riemergono tutte le volte in cui si protrae l'età pensionabile e quindi si protrae anche il tempo per il quale le aziende hanno da tenere in servizio (e da retribuire a costi crescenti proprio in virtù dell'anzianità) i lavoratori "anziani".  Questi ultimi, se venisse meno la tutela reintegratoria dell'art. 18, correrebbero il rischio di essere licenziati a 55-56 anni, se non prima, di avere diritto ad un risarcimento che magari potrà coprire al massimo il primo anno di mancato lavoro, e di dover poi restare dieci anni senza lavoro e senza pensione, dato che a quell'età è praticamente impossibile farsi riassumere da qualche altra azienda. 
Pertanto, può ritenersi (certo, a seconda delle opinioni; a tale riguardo si rimanda al "sottotitolo" di questo blog ) che la giusta tutela del datore di lavoro che voglia legittimamente adeguare la propria forza lavoro, ed il suo costo, alle variabili produttive e di sua giusta remunerazione, non possa passare attraverso la via, certo per lui facile e sbrigativa, dell'abolizione dell'art. 18 (che ha ben altre ed irrinunciabili finalità), ma debba trovare soddisfazione in appropriate discipline collettive ad hoc che tutelino anche il singolo lavoratore.
Una volta trovate queste più pertinenti soluzioni, potrebbe risultare ragionevole eliminare la differenziazione di dubbia legittimità costituzionale che esclude dalla tutela dell'art. 18 le aziende che occupano fino a 15 dipendenti: anche in questi casi il lavoratore ha diritto a non rischiare di essere licenziato perchè divenuto  "antipatico" al datore di lavoro, il quale, d'altra parte, se ha necessità di ridurre la forza lavoro, ricorrerà alle forme alle quali ricorre l'imprenditore che occupi più di quindici dipendenti.
In questo caso, tra l'altro, verrà meno il motivo che oggi artificiosamente limita a 15 l'organico di tante piccole imprese che, se non fosse anche per quel limite, magari assumerebbero qualche giovane in più.      

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