Tra i fatti sorprendenti che da qualche
giorno attraversano la Chiesa, ve ne sono due che colpiscono
particolarmente.
Il primo è l'insistenza con la
quale il nuovo Pontefice ha evitato di definirsi “Papa” nel primo
saluto di mercoledì sera dal loggiato di San Pietro. Più
volte ha usato il termine “vescovo di Roma”, e lo stesso
Benedetto XVI è stato definito “vescovo emerito di Roma”.
Francesco si sente quindi un vescovo tra i vescovi. Non si sente il
monarca assoluto della Chiesa cattolica, ma solo colui che deve farsi
carico del maggior dovere di carità nel mondo perché
vescovo di Roma e quindi successore di San Pietro. Non è
un segno da poco per il futuro, nel quale
potrebbero trovare maggiore spazio le voci di una Chiesa che ormai da
tempo non è più romano-centrica e che proprio nel
Conclave ha trovato il modo di affrancarsi, con abilità e
senza clamore, da vecchi legami sempre meno accettati. L'elezione del
cardinale Bergoglio, che a quasi tutti è apparsa una sorpresa,
ha il sapore di una scelta maturata da tempo e protetta col silenzio
fino all'ultimo momento perché non venisse compromessa.
Un ulteriore aspetto che colpisce è
il saluto finale che Francesco ha riservato sabato 16 marzo ai
rappresentanti dei media di tutto il mondo che avevano seguito
quest'ultimo mese di vita della Chiesa. Il Papa ha concluso il suo
intervento osservando che il suo uditorio era eterogeneo: cattolici,
aderenti ad altre religioni, non credenti. Per questo, ha detto,
“non vi benedico” se non nel “mio cuore”. Un gesto di
rispetto inatteso, quasi “anticlericale” potrebbe dirsi, che lascia sbigottiti dall'ammirazione.
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